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Published in edition #1 2017-2019

'Come si può misurare il tempo?'

Written in IT by Fabio Guidetti

Come si può misurare il tempo? È possibile comprendere veramente questa categoria del pensiero e della realtà, che ci sfugge continuamente nel momento stesso in cui cerchiamo di percepirla? Nel nostro mondo, in cui orologi e calendari sono accessibili in pochi secondi a chiunque, è difficile immaginare che cosa significasse vivere senza sapere il momento, l’ora, il giorno in cui ci si trovava. Ancora ai tempi dei nostri nonni, soltanto i più ricchi e i più istruiti potevano leggere un giornale e possedere un orologio da taschino: per quanti vivevano e lavoravano nelle campagne, la percezione del passare del tempo era scandita dai rintocchi dei campanili e dal calendario delle feste religiose. Ciò che ha consentito all’uomo di misurare il tempo è, infatti, il riconoscimento della sua ciclicità: è almeno a partire dalla rivoluzione neolitica, quando, oltre diecimila anni fa, le comunità umane cominciarono a coltivare la terra, che la misura del tempo si basa sulla periodicità dei fenomeni naturali. Tra questi ultimi, un posto di rilievo è occupato dai fenomeni astronomici, come l’alternanza del dì e della notte e la diversa altezza del sole nel cielo secondo le stagioni: quest’ultima, in particolare, influendo sulle condizioni climatiche e sulle variazioni di temperatura, determina l’annuale rinnovamento della vegetazione e la sequenza dei lavori agricoli.

La connessione tra il movimento regolare dei corpi celesti e il mutamento delle condizioni climatiche dovette essere osservata fin dalla più remota antichità; e fin dagli albori della civiltà l’uomo si sforzò di comprendere questo movimento, per prevedere i mutamenti stagionali e stabilire il calendario dei lavori agricoli. A giudicare dai materiali archeologici conservati, furono soprattutto le civiltà mesopotamiche a registrare nel corso dei secoli un’enorme quantità di osservazioni astronomiche. I Babilonesi studiarono in particolare il moto dei pianeti, cercando di individuarne le periodicità: a partire almeno dalla metà dell’VIII secolo a.C. essi svilupparono un sistema di osservazioni, sostenuto con ogni probabilità direttamente dall’autorità statale, che assicurò la registrazione dei moti planetari ad intervalli regolari. La testimonianza principale sull’osservazione del cielo in Mesopotamia ci è fornita dai cosiddetti ‘diari astronomici babilonesi’, una collezione di tavolette d’argilla provenienti da vari siti archeologici nell’odierno Iraq e oggi conservate al British Museum: i testi in esse contenuti coprono un periodo di quasi 600 anni, tra la metà del VII e la metà del I secolo a.C. Ma questi dati circolarono anche fuori dagli archivi babilonesi: essi erano ancora utilizzati nel II secolo d.C. dall’astronomo romano Claudio Tolomeo, il quale, per trovare la datazione assoluta degli eventi astronomici registrati nel passato, impiegava la cosiddetta ‘era di Nabonassare’, dal nome del sovrano babilonese (reg. 747-734 a.C.) alla cui epoca si facevano risalire le prime registrazioni. Grazie all’osservazione di tali fenomeni nell’arco di secoli, gli astronomi babilonesi poterono riconoscere la periodicità del moto dei pianeti e calcolare i tempi delle loro apparizioni future, un risultato fondamentale soprattutto per formulare previsioni astrologiche.

Non possiamo sapere se queste osservazioni abbiano portato come conseguenza anche l’elaborazione, in area babilonese, di teorie che cercassero di spiegare come funzionava il moto dei corpi celesti. Tale sviluppo è per noi ricostruibile soltanto per il mondo greco, in particolare nell’ambito della scuola di filosofia ionica, fiorita nel VI secolo a.C. nei territori della Grecia orientale. In quest’epoca le città greche della Ionia erano controllate dal regno di Lidia, che dominava l’Anatolia occidentale: proprio gli stretti rapporti con l’entroterra asiatico garantirono ad esse maggiori possibilità di scambi con le civiltà del vicino oriente, in ambito commerciale ma anche culturale e scientifico. I Greci stessi riconoscevano questo debito: lo storico Erodoto di Alicarnasso, vissuto un secolo più tardi ma cresciuto nello stesso ambiente culturale, riconosceva esplicitamente (nel libro II delle Storie, § 109) che i Greci avevano appreso la geometria dagli Egiziani e l’astronomia dai Babilonesi. Queste due discipline erano intese da Erodoto in senso prima di tutto pratico: la geometria è la scienza che si occupa di misurare lo spazio, particolarmente sviluppata in Egitto per rispondere alla necessità di ritracciare le divisioni di proprietà dopo le piene del Nilo; l’astronomia è la scienza che si occupa di misurare il tempo, mediante attrezzature concrete (il polo e lo gnomone) e strumenti concettuali (la divisione del dì e della notte in dodici ore) la cui invenzione Erodoto attribuisce proprio alla civiltà mesopotamica.

Un dato su cui vale la pena soffermarsi è la semplicità degli strumenti astronomici menzionati da Erodoto. Lo gnomone, per esempio, non era altro che un bastone piantato per terra in posizione perpendicolare al suolo, la cui ombra, accorciandosi durante il mattino e di nuovo allungandosi nel pomeriggio, permetteva di seguire il movimento del sole nel cielo e quindi di misurare le ore diurne: il suo stesso nome, derivato dal verbo ‘conoscere’, significa appunto ‘oggetto che permette di conoscere’ il tempo. Il polo invece, il cui nome propriamente indica il ‘perno’ di una rotazione, era un catino di forma emisferica, il quale, sistemato in posizione orizzontale, era usato come immagine speculare della volta celeste: combinando il polo con lo gnomone, ossia fissando un bastone in corrispondenza del centro del catino, il risultato che si otteneva è che l’estremità dell’ombra del bastone, proiettata sulla superficie interna del catino, riproduceva specularmente il moto del sole nel cielo diurno. La combinazione di polo e gnomone funziona quindi secondo lo stesso principio di un orologio solare o meridiana. La testimonianza di Erodoto ci assicura che questi strumenti non erano di nuova invenzione, bensì erano utilizzati già dai Babilonesi per la misurazione del tempo. Ma con l’introduzione di tali strumenti nel mondo greco, queste attività scientifiche andarono incontro ad uno sviluppo inaspettato: e, in una società altamente tecnologica come la nostra, desta enorme stupore osservare come i filosofi ionici siano riusciti ad elaborare modelli teorici di notevole complessità impiegando soltanto questi strumenti elementari.

Anassimandro di Mileto, vissuto nella prima metà del VI secolo a.C., è il primo filosofo occidentale a cui le fonti attribuiscano l’elaborazione di un modello teorico della struttura dell’universo, cui sono legate anche le prime vere e proprie misurazioni astronomiche. Di Anassimandro, come di tutti i filosofi greci anteriori a Platone, non ci è pervenuta alcuna testimonianza diretta: ciò che sappiamo di lui lo dobbiamo ai cosiddetti dossografi, autori vissuti diversi secoli più tardi, in età imperiale e tardoantica, che cercarono di recuperare le testimonianze del pensiero di questi filosofi antichissimi, spesso traendole non direttamente dalle loro opere, bensì da compendi preesistenti. Secondo quanto possiamo ricostruire sulla base di tali fonti, la principale novità dell’approccio di Anassimandro, che contraddistinguerà poi l’intera tradizione astronomica greca e romana, era rappresentata dal fatto che esso si basava su fondamenti geometrici e non aritmetici: in altre parole, anziché semplicemente registrare le osservazioni, contando il numero di giorni nei quali un pianeta rimaneva visibile o invisibile, Anassimandro elaborò un modello geometrico che descrivesse il moto dei corpi celesti, cercando di comprenderne le modalità e i tempi. Egli può quindi essere considerato l’inventore del modello geocentrico dell’universo, basato sull’idea che i corpi celesti si muovano di un moto circolare uniforme intorno alla terra, immobile al centro del sistema.

Secondo il dossografo Diogene Laerzio, vissuto nel III secolo d.C. (Vite e opinioni dei filosofi illustri, libro II, § 1), Anassimandro immaginava la terra come una sfera posta al centro dell’universo: sulla base di tale presupposto, egli utilizzò l’ombra dello gnomone per effettuare misurazioni astronomiche che consentissero di stabilire con precisione i tempi dei solstizi e degli equinozi, e quindi la durata delle stagioni. Una volta piantato lo gnomone per terra, l’osservazione della sua ombra permette di seguire il movimento apparente del sole: segnando, ad intervalli di tempo regolari, i punti corrispondenti all’estremità dell’ombra, si possono costruire linee curve di traiettoria parabolica, che rappresentano la proiezione a terra del tragitto del sole nel cielo. Il mezzogiorno solare, ovvero il punto in cui il sole è più alto, corrisponde naturalmente al momento in cui l’ombra dello gnomone è più corta ed è rivolta in direzione del polo nord celeste (vale a dire, coincide con il meridiano locale). Una volta stabilita la posizione dell’ombra meridiana, Anassimandro misurò le variazioni della sua lunghezza giorno per giorno: in questo modo, egli poté esaminare i mutamenti della posizione del sole non solo durante il giorno, ma anche nel corso dell’anno. Egli osservò che l’ombra dello gnomone si accorcia e si allunga su base anche annua e non soltanto diurna, raggiungendo una lunghezza massima in inverno e una minima in estate. Che il sole sia più basso in inverno e più alto in estate era ovviamente patrimonio della coscienza comune da millenni: il salto di qualità rappresentato da Anassimandro consistette nel misurare sperimentalmente questa variazione, traendone importanti conseguenze sul cielo e sui corpi celesti. Misurando le variazioni dell’ombra meridiana, Anassimandro individuò, infatti, esattamente i due momenti in cui la traiettoria del sole inizia a spostarsi da nord a sud e viceversa: questi due momenti furono chiamati ‘punti di svolta’ (in greco tropé) nel moto annuale del sole; e i circoli lungo i quali si svolgeva il moto diurno dello stesso astro in corrispondenza di questi due momenti presero il nome di ‘tropici’.

La procedura appena descritta fa capire la relativa semplicità delle misure prese da Anassimandro, facendo uso di strumenti antichi e dando per la prima volta un’oggettività matematica a conoscenze che erano state patrimonio comune per millenni. La principale innovazione di Anassimandro, e della scienza greca in generale, non fu infatti la costruzione di nuovi strumenti o la maggiore precisione delle misurazioni, bensì la costruzione di un nuovo modello teorico, che poi verrà canonizzato con il nome di ‘modello geocentrico’: una rappresentazione mentale dell’universo, in cui i movimenti dei corpi celesti sono proiettati sulla superficie interna di una sfera di grandezza infinita, o meglio di una sfera talmente grande che rispetto ad essa la terra risulta infinitamente piccola, tanto da poter essere assimilata, nella costruzione geometrica, ad un punto. Fu proprio questa nuova rappresentazione mentale a consentire ai filosofi ionici un enorme passo in avanti rispetto alla tradizione babilonese, di fatto gettando le basi dell’astronomia e della geografia scientifiche come le intendiamo ancora oggi. Il modello geocentrico presentava, infatti, un vantaggio straordinario: quello di consentire finalmente una misura accurata della ciclicità dei fenomeni celesti, espressa non più in termini assoluti, tramite numeri e periodi (come nelle registrazioni delle osservazioni astronomiche babilonesi), bensì in termini relativi, come frazioni di un movimento circolare. L’astronomia e la geografia greche e romane si basano sul calcolo di distanze angolari, espresse secondo il sistema sessagesimale ereditato dalla tradizione babilonese. La principale conseguenza dell’impiego delle distanze angolari era quella di poter trasferire le grandezze (rapporti, proporzioni, angoli) misurate sulla terra, dentro un piccolo catino emisferico, negli spazi infinitamente grandi dell’universo, mantenendo ovviamente non il loro valore numerico, bensì le loro proporzioni reciproche. Le distanze fra i circoli celesti, la posizione del sole nei diversi periodi dell’anno, le latitudini geografiche vennero tutte misurate con un bastone e un catino, e da lì trasferite, mediante diagrammi geometrici disegnati su fogli di papiro, nelle grandezze incommensurabili del cosmo. Nacquero così i concetti basilari dell’astronomia e della geografia greche (l’equatore, i tropici, i poli, la latitudine e molti altri), che sono rimasti in uso fino ad oggi, sopravvivendo senza problemi all’abbandono del modello geocentrico nell’ambito del quale erano stati inventati. La forza di tale modello, infatti (come esplicita Tolomeo nei capitoli introduttivi dell’Almagesto), era proprio quella di essere una costruzione teorica, elaborata per misurare i movimenti dei corpi celesti e non per avanzare ipotesi sulla loro natura. Paradossalmente, quindi, Copernico e Galileo interpretarono il geocentrismo per quello che effettivamente era, un modello appunto, che poteva (e doveva) essere migliorato: essi dimostrarono di averne compreso correttamente la natura molto meglio dei suoi più strenui difensori. Anche se ora sappiamo che i corpi celesti si muovono in modo diverso e obbediscono ad altre leggi, la base dei nostri sistemi di riferimento astronomici e geografici è rimasta la stessa: una proiezione sferica inventata oltre 2500 anni da persone di straordinaria capacità intuitiva, il cui unico strumento scientifico era un bastone piantato per terra.

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