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Original text "Finalmente tens um quarto só para ti" written in PT by João Valente,
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Published in edition #1 2017-2019

Finalmente hai una stanza tutta per te

Translated from PT to IT by Francesca Leotta
Written in PT by João Valente

Sto scomodo, ma non mi azzardo a muovermi per non svegliarti. Mi stiro  la schiena e allevio il dolore. Sto mezzo seduto sul bordo del letto, lasciando  il materasso a tua disposizione. Sei caduto in un sonno profondo e ne ap profitto per accarezzarti i capelli con dolcezza. Non ti piace che lo faccia  quando sei sveglio. 
Era sul divano che mi rifacevo. Quando stavi per crollare dal sonno,  cullato da un giorno di giochi e scorribande, ti mettevo a guardare i cartoni  animati. In quei momenti ti riempivo di coccole. Accettavi le mie carezze  solo perché eri in uno stato di semicoscienza. Ti lasciavi fare tutto, ciuc ciando rumorosamente. So che il gesto è deplorevole. Ti obbligavo a guar dare la televisione quando avevi sonno solo per poterti riempire d’amore.  Perché io mi sentissi bene. 
Adesso, mentre dormi, arrotolo i tuoi boccoli sulle dita. Oggi ri mango con te. Ti ho barattato già troppe volte. Dovevo lavorare, control lare le e-mail, Twitter, Facebook, sistemare la casa, lavare i piatti, preparare  la cena, prenotare le vacanze, guardare la partita, andare in palestra, farmi la  barba, cenare con gli amici, cenare con la mamma, guardare il video del ti zio-che-è-caduto-mentre-andava-in-moto, leggere il giornale, leggere il  libro, leggere la rivista, controllare i messaggi, caricare il cellulare, fare la la vatrice, fare benzina, versare i soldi, prelevare i soldi, fare il bonifico, bere  una birra, guardare un film, suonare la chitarra, aggiustare il bastone delle  tende. E dopo tutto questo, tu continuavi ad aspettarmi. 
Finalmente hai una stanza tutta per te. Non devi condividerla con  tuo fratello. Ed è azzurra. Ci hai sempre chiesto una stanza azzurra. Con la  televisione. Io sono contrario ai televisori in camera, ma stavolta non avevo  potuto rifiutare. Hai visto com’è tutto sistemato? Ogni cosa al suo posto:  pulito, piegato, ordinato. Completamente diverso dalla baraonda dove  dormivate. C’erano giorni in cui non riuscivo nemmeno a vedere il pavi mento, coperto com’era da giochi, giocattoli, libri e vestiti. 
Ti ricordi la vacanza col distributore dei giocattoli? Di quelli che si  mette una moneta e cade la pallina di plastica con un giocattolo dentro?  Abbiamo mangiato la pizza e preso il gelato. Alla fine della serata hai indi cato il distributore: «Metti una moneta, papà». Quando ti ho risposto di  no ti sei messo a gridare, a piangere. Ti sei buttato a terra, per strada, bat tendo i piedi e le mani sull’asfalto e io ho provato vergogna. Le persone mi  guardavano. Alcune criticavano la mia avarizia, altre disprezzavano il modo  in cui ti avevo educato. E tu lo sapevi. Ti alimentavi dello sguardo sprez zante dei turisti per presentare il tuo spettacolo. Quella sera sono stato irre movibile. Dopo un po’ la scenata ha smesso di essere per il distributore. Era  perché sì, e si mischiava al sonno e all’orgoglio ferito. Sei tornato in hotel  trascinato per terra e a mani vuote. Dietro di noi, un fiume di moccio e lacrime disegnava la strada. Ti sei addormentato singhiozzando. Il sonno ci  ha fatto fare pace. 
Sai che, sotto una maschera di pedagogia paterna, ho provato un  piacere spregevole a negarti quel momento di felicità? Esaudivo ogni tuo  desiderio. Mettevo a tacere le tue richieste cedendo. Compensavo la mia as senza con un regalo dietro l’altro. Negarti un capriccio voleva dire che stava  per cambiare tutto. Che potevi giocare con me. 
Ti stai muovendo… Ti fa male qualcosa? Ti accarezzo la testa,  muovo il dito disegnandoti la fronte e il naso. Alla fine, ti calmi e continui a  dormire. Non sarà stato un dolore. Solo un brutto sogno. Non preoccu parti, papà è qui. Non lascerò che i mostri entrino nella stanza, né tanto  meno che ti facciano del male. Io sono obbligato a convivere con i miei  mostri tutti i giorni. Vivo terrorizzato da quando tu e tuo fratello siete nati.  Ho paura di quello che vi potrebbe succedere: le malattie, gli incidenti, che  smettiate di volermi bene, che la vita ci allontani o che siate infelici. E c’è  sempre quella questione che non dico davanti a nessuno: cosa mi succede rebbe se ti perdessi? C’è un peso che cade sulle mie spalle a ogni tuo sorriso.  In ogni momento di gioia mi viene in bocca il sapore agrodolce della possi bilità di perdere la fonte della felicità. La vita sarebbe più sopportabile se  non ti avessi mai conosciuto. Andrebbe come andrebbe. Come dovrebbe  andare. Ma ora che ti conosco, non riesco a ignorarti. L’amore per i figli è la  pena maggiore a cui possiamo essere condannati. Eterno e infinito, è intol lerabile. Troppo concentrato per essere sopportato. Troppo semplice per  essere compreso. Dopo che sei nato, sono morto io. I miei desideri, la mia  volontà, i miei piani, la mia vita sono spariti. Adesso non posso tornare in dietro. Anestetizzando volontariamente il dolore alla schiena per non sco modarti, mi sono dimenticato di chi fossi prima di te. 
Il panico si alimenta dell’impotenza. È così che mi sono sentito in  ospedale, mesi fa. Sei entrato con la febbre alta. Ti hanno sottoposto a una  serie di analisi senza riuscire a identificarne la causa. I primi risultati mi  hanno incoraggiato. Tiravo un sospiro di sollievo a ogni malattia esclusa.  Alla fine della giornata, però, speravo che avessi qualche problema. Non  identificare quello che ti faceva star male poteva significare una diagnosi  rara o grave. O la somma delle due. Più io desideravo sapere cosa avessi, più  il medico insisteva a dirmi cosa non avessi, perché qualche reagente aveva  fallito nella sua missione di oracolo. I genitori con cui mi incrociavo nel  corridoio di pediatria sorridevano con solidarietà. Io gli sorridevo a mia  volta. 
Non si fanno analisi di notte in ospedale. Insistono che i malati  devono riposare. Quella volta, hai dormito con tua mamma. Ti hanno  fatto abbassare la febbre, ti hanno fatto mangiare e dato dei giocattoli. Io  sono tornato a casa e ho fatto addormentare tuo fratello. Ospitavo un panico che mi ha obbligato a fare su e giù per il corridoio tutta la notte. Ho  evitato di guardare le tue foto e i tuoi giochi. Essere genitore è una tensione  permanente tra termini contraddittori e incompatibili. Da un lato, voglio  che la tua vita sia lunga e felice. Dall’altro, so che qualsiasi esistenza ha  come certezza la morte. L’idea che “nessun genitore debba assistere alla  morte di un figlio” è un tentativo spurio di mitigare la contraddizione.  Sappiamo cosa succederà, ma preferiamo non viverlo. Saperlo mi di strugge. Come se non meritassi la felicità di essere tuo padre e avessi paura  che, un giorno, Dio o l’universo o la statistica lo capissero. Come posso  godere della felicità del tuo essere qui ora, sapendo che un giorno potresti  non esserci più? 
Mi sono svegliato il giorno dopo senza aver dormito. Mi sono occu pato di me e di tuo fratello in modo meccanico. Sono tornato in ospedale e  già stavi facendo una nuova batteria di analisi. Quando è tornato il medico,  dopo trenta minuti che erano sembrati trent’anni, ha scherzato con te,  chiamandoti “eroe”. Ci ha spiegato che avevi un’infezione poco comune,  ma trattabile con antibiotici. E che ti avrebbero tenuto sotto osservazione  per capire il motivo di un’infezione tanto improvvisa e violenta. 
Oggi, prima di addormentarti, hai chiesto di mamma e di tuo fra tello. «Ora non ci sono», ho risposto. Stanotte rimane papà con te.  Mamma è rimasta con tuo fratello. Un altro giorno faremo a cambio. Tua  madre non ti ama meno per essere rimasta con tuo fratello, né io ti preferi sco solo perché sono qui, la prima notte in questa stanza.  
Che ricordi avrai di quella volta in cui ti sei svegliato in mezzo alla  notte, terrorizzato per colpa di un incubo? Volevi la mamma, ma mamma  era fuori, a lavoro, e sarebbe tornata solo il giorno dopo. Quella notte, ho  provato di tutto. Ti ho baciato, ti ho abbracciato, ti ho preso al collo, ti ho  cullato nel letto e ti ho portato in salotto. Il pianto è aumentato di volume  ed è diventato collerico. Hai svegliato tuo fratello e io l’ho convinto a tor nare a letto, trasportandoti in braccio con movimenti da contorsionista.  Volevi la mamma. Avevi il mio calore, le mie carezze, la mia voce, ma mi ri fiutavi. Mamma era lontana, irraggiungibile. Dovevi accontentarti di me.  A poco a poco lo hai capito: il pianto incontrollato ha lasciato il posto a  una cantilena delicata, interrotta da singhiozzi sempre meno frequenti.  Propri di chi capisce che il sonno vincerà. Mi compiacevo a ognuno di quei  gridolini. Mi sentivo vendicato per il rifiuto che mi avevi riservato. Man  mano che ti si chiudevano le palpebre io mi rasserenavo e il sentimento di  invidia spariva. Ci ho messo un po’ a rimetterti a letto. Non perché tu vo lessi ancora stare con me, ma perché io avevo bisogno di stringerti tra le  braccia. 
Quando i nonni vi hanno regalato un’enorme cassetta di pastelli a  cera, lo hanno fatto per dare sfogo alla vostra immaginazione, ma si sono dimenticati che, in questo tipo di regali, la quantità di fogli bianchi do vrebbe essere proporzionale all’inchiostro, grafite o cera disponibile.  Sfortunatamente, le poche pagine di quaderno che li accompagnavano  sono state consumate in un attimo, lasciando i pastelli con molta cera da  usare. Di conseguenza, sono stato accolto da un murales di bellezza discuti bile sulla parete bianca del corridoio. La stessa parete che mi era costata  tanta fatica a tinteggiare, settimane prima, su commissione di vostra  madre. Un appalto che veniva con un capitolato d’oneri: doveva essere  fatto di mattina cosicché le finestre aperte dissolvessero l’odore della tinta  entro la fine della giornata. 
Non che sia servito a molto… Poco tempo dopo, le pareti del corri doio sembravano le braccia di un calciatore, tatuate con scarabocchi intri cati e dai colori più bizzarri. Mi sono infuriato. Con voi per i dipinti  rupestri e con vostra madre per il modo frivolo in cui ha affrontato l’acca duto. Ho perso un pomeriggio con una bacinella d’acqua e un flacone di  candeggina a cancellare i disegni, solo per rendermi conto che i segni del  crimine erano indelebili. Anche dopo una una nuova sessione di pittura a  rullo, pennello e due mani della tinta più cara del Brico. 
Una tempesta in un bicchier d’acqua. Erano ancora visibili i disegni  sulla parete del corridoio? Magari dovevo lasciarli lì. La parete avrebbe un  aspetto più originale, meno anonima. Una parete bianca è una parete  bianca. La parete che voi avevate dipinto era solo nostra. E io l’ho distrutta.  Forse la colpa di tutto questo è solo mia. Una parete non deve essere  bianca. Può essere quello che voglio. O quello che volete voi. E un corri doio può essere più di un passaggio tra due punti. Può essere un museo  mutevole della vita di chi ci passa in mezzo. 
Tu mi definisci. La mia vita è la mappa in cui tu sei la latitudine e la  longitudine. Per quanto io sia lontano, so sempre dove sto in funzione di  te. Quando è nato tuo fratello non c’è stato un altro taglio con il passato. Vi  voglio bene allo stesso modo, ma già sapevo a cosa andassi incontro. 
Ho scoperto che sono circondato da specialisti in genitorialità che  potrebbero essere ottimi “allenatori della domenica”. Si sono limitati ad  avere uno o due figli, ma sembra che siano grandi intenditori. Come se, per  saper cucinare un paio di piatti, fossero critici gastronomici certificati.  Altri, senza aver mai cucinato nella vita, mi spiegavano fino all’esaurimento  cosa dovessi e non dovessi fare. Per il vostro bene io e tua madre siamo - o  eravamo - una coppia orgogliosa. Senza dare importanza a quello che dice vano, abbiamo optato per navigare a vista. Ci sono stati momenti in cui  stavamo andando alla deriva. Ho letto i bestseller di puericultura come se  fossero romanzi e ho capito che la storia è sempre la stessa: tu crescerai tra  sfide e interrogativi finché non sarai un adulto felice. Senza essere entrato  nell’albo d’oro dei genitori, ho fatto un lavoro discreto. Non è inevitabile che finiate per essere degli emarginati, avendo avuto un’infanzia soddisfa centemente felice. 
Mi piacerebbe che fossimo tutti e quattro a casa. A quest’ora vi  avremmo già messo a letto e raccontato una storia. Mancherebbe soltanto  il bacio per farvi dormire in pace. A che serve avere una stanza tutta per te  se siamo da soli? Non so che fare. Non c’è chip nascosto, sesto senso o intu izione che mi venga in aiuto. Sento che ho fallito. Come marito e come  padre. Una famiglia non si separa. Non dovrei passare la notte, mezzo  seduto sul letto per non svegliarti, lontano da tua madre. Non ho colpa per  quello che è successo. Nessuno ha colpa. Ma ho colpa per quello che non è  successo. Per quello che non ho fatto, per le volte in cui non sono stato pre sente, per le risate che non ti ho fatto fare, per l’affetto che non ho dato a  tua madre, per l’esempio che non sono stato, per le priorità sbagliate che ho  stabilito. 
Mi sono alzato senza che te ne accorgessi. Piano, facendo pressione  sul materasso così che il cambiamento di peso non lo sollevasse. Non  volevo abbandonarti, ma la vescica è impietosa. In realtà, non ti stavo dav vero abbandonando. Il bagno è a due passi dalla stanza. Mentre mi lavavo le  mani, ho sentito un rumore nel corridoio. Ho aperto la porta e ho visto l’équipe di servizio intorno a te. L’infermiera mi ha guardato con un’espres sione di triste impotenza. Il medico si muoveva con rapidità ed era il prota gonista di un balletto folle, accompagnato dagli assistenti a tentare di  recuperare la vita che ti stava abbandonando. Solo io rimanevo fermo.  Impavido. Senza poter fare nulla. 
Volevo fare a cambio con te. Volevo essere io ad abbandonare la vita,  sdraiato in quel letto d’ospedale. Tu continueresti a vivere, libero dalla ma lattia, a crescere e a sorridere. Ma questo non mi era permesso. I medici mi  avevano avvisato. Io mi ero preparato, ma solo allora ho percepito la futilità  di quell’esercizio. Sono caduto sulla poltrona preparata per le visite. Ho aspettato che i medici rinunciassero a salvarti.  
Mi sono rimesso a sedere sul letto. Rispettando il mio dolore, il  medico ha lasciato che ti abbracciassi e che ti prendessi ancora una volta,  un’ultima volta, in braccio. Non riuscivo a credere che fossi morto. Il tuo  corpo era caldo. Il viso disegnava un sorriso calmo, di pace. Per me, stavi  dormendo. Per qualche istante, fino a che la mano serena e ferma del  medico non mi ha toccato la spalla e richiamato indietro, ho creduto che  dormissi. Insieme a me. In braccio. Con tutta la vita davanti.

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