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Original text "Automobil ze starého Řecka" written in CZ by Ondrej Macl,
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Maria Gaia Belli

Published in edition #2 2019-2023

Un’automobile dell’antica Grecia

Translated from CZ to IT by Elena Zuccolo
Written in CZ by Ondrej Macl

Era un caldo giorno di giugno. Solo che allora non si diceva giugno, ma Θαργηλιών o Σκιροφοριών. Due figure si erano lasciate alle spalle le mura di Atene per fare una passeggiata nella natura lungo il fiume Illisso e sostenevano una conversazione amichevole. Parlavano soprattutto d’amore.

Il ragazzo, il più giovane dei due, aveva portato con sé la trascrizione di un discorso, nel quale l’autore sosteneva che l’amore fosse un male, cosa a cui anche lui credeva. A dire il vero non faceva altro che citare quel discorso. L’uomo, il più vecchio dei due, in cuor suo non era d’accordo, ma l’entusiasmo del giovane lo eccitava. Si erano quindi fermati sotto un alto platano, l’uomo si era steso comodamente sull’erba e aveva invitato il ragazzo, fermo sulle sue posizioni, a leggergli un brano di quel testo. A momenti lo ascoltava, con evidente interesse, nei passaggi ripetitivi dava la precedenza al frinire delle cicale e nel frattempo, da uomo navigato, preparava un discorso assai migliore.

Sono passati millenni e anche la città si è lasciata alle spalle le mura. Nei luoghi dove scorreva il fiume Illisso, oggi rimbomba trionfalmente una strada a otto corsie. Là, dove c’era il platano, è piantata una panchina con un cestino della spazzatura. La città si è adagiata sull’erba e il fiume è diventato così marrone, e alla fine non è rimasta altra scelta che interrarlo. Atene è l’unica metropoli europea ad aver sotterrato i propri fiumi.

Quando il ragazzo terminò di leggere, l’uomo si coprì teatralmente il viso e aggiunse a quel discorso contro l’amore nuove riflessioni sugli eccessi dell’uomo innamorato (quant’è geloso, manipolatore o ricattatore!). Ma poi, una volta scoperto il volto e messo all’improvviso davanti alla bellezza del ragazzo, non fu più in grado di passare a lodare l’uomo ragionevole che non ama, come quel pivello si sarebbe aspettato. Si pose invece la domanda se le nostre esperienze più preziose non siano una manifestazione della follia divina piuttosto che della ragione.

Sulla sponda del fiume Illisso comparve l’Hotel Hilton. Ne uscì una giovane filologa di Harvard che, come se niente fosse, fece un balzo nella corrente e si mise a nuotare, diretta alla Galleria nazionale, a una conferenza intitolata Come il cuore dell’uomo antico ha inventato l’anima: contesti, prospettive, problemi. Tutto ciò non è affatto folle in confronto all’eternità sul viso del ragazzo!

L’uomo si chiamava Socrate. Per ragioni ignote immaginava che, in ognuno di noi, l’amore si mescolasse con la ragione e il piacere insaziabile con la buona vecchia moderazione. O qualcosa di simile. E, affinché questa contraddizione divenisse niente di meno che l’essenza dell’anima umana (va ricordato che l’anima, prima di Socrate, non significava poi molto), la paragonò a un carro trainato da cavalli. Fu così che l’anima umana, ai suoi albori, si guadagnò il paragone di un auriga che cerca con difficoltà di domare due cavalli antitetici.

In realtà non è ben chiaro quale sia il significato dei due cavalli: uno doveva forse essere bello, buono, bianco, dagli occhi neri, amico delle opinioni vere, con il naso sporgente, e non aveva bisogno di essere frustato… L’altro invece doveva essere gobbo, tozzo, con il naso schiacciato, rubicondo, amico dell’arroganza e del vanto, sordo e dalle orecchie irsute. L’immagine dell’anima come carro era tuttavia inequivocabile:


ἐοικέτω δὴ συµφύτῳ δυνάµει ὑποπτέρου ζεύγους τε καὶ ἡνιόχου.

Ma era davvero la simbologia del carro a poter convincere un ragazzo di città che Socrate avesse ragione, sconfiggendo la sua indecisione? Anche così si manifestava la natura omoerotica della filosofia delle origini, ovvero nella scelta di metafore care ai giovani di città? Ai tempi, i carri non erano molto adatti ai trasporti sulle strade lastricate, ma venivano utilizzati soprattutto nelle celebrazioni, nei cortei e soprattutto negli ippodromi, che brulicavano di ragazzi. O forse Socrate, sotto il platano, era stato inebriato dal calore del sole di mezzogiorno, che era soprannominato il carro d’oro del dio Elio?

Immaginiamoci che Socrate esponga il suo paragone con il carro e che in un baleno il fiume Illisso si trasformi in una grande arteria di comunicazione. Alla faccia della follia divina! Che la filologa di Harvard prenda pure il suo taxi... Per prima cosa Socrate si tapperebbe le orecchie. Le cicale sotto shock forse canterebbero con maggiore intensità, pur essendo accompagnate dal rumore dei motori, fino ad allora sconosciuto, a modo suo simile alle onde del mare, in mezzo alle quali, di tanto in tanto, abbaia un mostro. D’ora in poi nemmeno il profumo dei platani avrà più senso, poiché la puzza di piombo e zolfo irriterà il vostro naso. Senza dubbio si tratta di elementi provenienti dalle profondità della terra, ai quali il dio Ade fa la guardia di notte, e che di giorno vengono forgiati dal fabbro Efesto. Ma nulla è paragonabile alla percezione visiva: cavalli di metallo e carri senza cavalli sfrecciano a una velocità incredibile verso destra e verso sinistra, gli uni diretti verso la costa inclemente, dove, con molta probabilità, spariranno attraverso un tunnel negli inferi, gli altri diretti in alto, verso le montagne, probabilmente verso il cavalcavia circolare dove gireranno in tondo come il filo d’oro finché le dita delle sirene non li intrecceranno ai raggi del sole. Ed è come se qualcuno avesse suonato il clacson nelle vicinanze.

«Quegli occhi!», esclama il filosofo boccheggiando, «quei loro occhi raggianti».

L’eternità, sotto forma di un giovane confuso, lo sorreggerà subito, affinché non si faccia del male, visto che, alzandosi dall’erba, è saltato in piedi. Probabilmente in preda a una delle sue visioni…


Forse Socrate aveva paragonato l’anima umana a un carro anche perché non era ancora in grado di immaginarsi l’automobile. Dopotutto, quando parla dell’anima, della sua immortalità, le attribuisce la rara capacità di muoversi da sé.

E a che cos’altro rimanda l’invenzione dell’automobile?

La parola automobile, altrimenti detto “che si muove da sé”, è formata dalla parola greca “autós”, ovvero da solo, e dalla parola latina “mobilis”, ovvero movimento. L’invenzione venne denominata automobile per differenziarla dagli altri mezzi di trasporto che dipendevano da una forza esterna. Con un cavallo la questione è più complessa: anche se l’abbiamo ferrato, gli abbiamo messo la sella o gli abbiamo attaccato un carro, ciò non significa che sia stato creato appositamente per il trasporto.


Socrate amava la città. Il suo accompagnatore aveva avuto un bel da fare ad attirarlo nella natura. Secondo le parole di Socrate, i paesaggi e gli alberi non hanno nulla da insegnarci, a differenza delle parole umane.

Se è vero che, faccia a faccia con il giovane, aveva paragonato l’anima umana a un carro, una volta, quando, dopo una celebrazione, si era ritrovato in compagnia di alcuni anziani, non aveva esitato a paragonare l’anima agli strati sociali. In quell’occasione, l’auriga con il cavallo buono e il cavallo cattivo era stato sostituito dalla ragione nella testa, l’impulsività nel petto e il desiderio nel basso ventre, come analogie del governo, dei soldati e dei lavoratori. All’improvviso, la giustizia doveva essere la virtù di uno e di molti.

Era come se, dentro lo stesso Socrate, si fossero fusi un cavallo vecchio e un cavallo giovane. Un cavallo che governa e un cavallo imbizzarrito. Un’anima giusta e un’anima maniacale.

In quanto maestro, Socrate si era riallacciato alla tradizione dei centauri, creature mitologiche metà uomo e metà cavallo, in grado di far diventare ogni fanciullo un eroe. Un rivale in amore l’aveva collocato tra i sileni e i satiri più depravati, sostenendo che i suoi discorsi fossero puro inganno, eppure (anche se la società lo aveva mandato per questo a morire) si è guadagnato un rispetto senza precedenti da parte della Storia. Ancora ai tempi di Goethe, Socrate era un modello paragonabile a Gesù.

Fin dall’inizio, però, Gesù era stato il rappresentante di una minoranza oppressa, un nomade, un oppositore della città e un sostenitore della misericordia più che della giustizia. E il suo ingresso trionfale a Gerusalemme era avvenuto su un asino di campagna.


Ai tempi di Gesù, sulla costa egiziana, viveva un altro tipo di centauro, ovvero Erone di Alessandria, il direttore del Museo locale. Mentre il cristianesimo era ancora in fasce, gli antichi culti egizi stavano perdendo popolarità. E così i sacerdoti si rivolsero all’onnisciente Erone, affinché in cambio di un sacco di soldi trasformasse il loro tempio in un luogo di miracoli.

Egli sollevò gli occhi dal suo congegno automatico per distribuire la limonata appena smontato e accettò l’offerta: perfezionò il tempio dotandolo di porte che si aprivano automaticamente, di lampade a olio che si riempivano da sole, di marionette degli dei capaci di movimento e di effetti sonori e addirittura, grazie alle sue conoscenze del campo magnetico, di un carro metallico che si librava vicino al soffitto.

Sia lodata la meccanica!

Lo stesso Erone inventò anche il principio della macchina a vapore: la palla che rotava grazie al vapore venne da lui denominata “palla di Elio, dio del vento”.


Ai tempi in cui Goethe muoveva ancora i primi passi, un altro genio perse l’interesse per la letteratura latina e greca, poiché era molto più stimolato dai paranchi, dalle gru e dagli argani che si trovavano nel laboratorio del padre. Le macchine a vapore vennero nuovamente inventate per far fronte alle esigenze delle miniere inglesi e James Watt decise di dedicare la sua esistenza a perfezionarle.

Non c’erano però saldatori capaci di lavorare esattamente secondo i suoi disegni, all’epoca non c’era nemmeno un sistema unitario di pesi e misure, per questo motivo ci vollero molti anni prima che la trazione a vapore conquistasse il cuore del mondo moderno.

E, affinché il mondo contemporaneo capisse meglio le novità mefistofeliche che la macchina a vapore portava con sé, Watt calcolò la potenza di uno degli ungulati che lavoravano nelle miniere e scoprì la rivoluzionaria unità di misura del cavallo vapore: una macchina compie il lavoro con una potenza che va da dieci a dodici cavalli.


Nel secolo del vapore il cavallo era ancora onnipresente. Trainava carri di campagna e carrozze aristocratiche, diligenze a lunga percorrenza, fiacre a noleggio o omnibus pubblici, addirittura i primi treni e i tram erano a trazione animale! Il cavallo consegnava la posta, portava via i bidoni della spazzatura, con in sella il suo ufficiale garantiva la quiete notturna, sgobbava nelle gallerie insieme al minatore e moriva in battaglia assieme al soldato. La carne di cavallo si arrostiva sullo spiedo, i crini si tagliavano per fare le spazzole o gli archi dei musicisti.

I primi veicoli a motore dovettero quindi adattarsi ai mezzi di trasporto trainati da cavalli. L’auto, ad esempio, venne inventata da sinistra: correva nella parte sinistra della carreggiata e il suo volante era posizionato a sinistra, perché anche con i cavalli si fa tutto da sinistra. Proprio come il cavallo, anche l’auto si manovra principalmente con le gambe e si controlla con le mani. Proprio come il cavallo, ha diverse velocità. Proprio come il cavallo, a volte deve essere nutrita e a volte parcheggiata perché si deve riposare.


Storia dell’anima: Nicolas-Joseph Cugnot, i coniugi Benz, Rudolf Diesel, Ferdinand Porsche…


Johann Wolfgang von Goethe è entrato nei libri di lettura scolastici grazie alla ballata Il re degli elfi. Padre e figlio vanno a cavallo in una notte oscura, nel corso della quale il figlio viene attratto nell’aldilà dalle apparizioni di un re e di alcune principesse, finché poi muore. In questa ballata, alcuni psicanalisti hanno intravisto la lotta tra un padre buono e un violentatore omopedofilo che si contendono l’anima sdoppiata del figlio. Stranamente, a nessuno è venuto in mente di vedere nel misterioso re degli elfi Bibendum l’omino bianco fatto di pneumatici che si trova nel logo della Michelin e che rammenta al protagonista di Goethe l’inizio di una nuova era dei trasporti. Il padre ha quindi fallito perché non ha avuto comprensione per il figlio e lo ha costretto ad andare a cavallo con lui invece di lasciarlo andare da Bibendum. Come spesso succede, siamo maggiormente minacciati da coloro che si prendono cura di noi.


Al contrario, quando il giovane Henry Ford entrò a Detroit a bordo della prima automobile americana della storia, la gente rimase scandalizzata per il rumore e temeva che avrebbe fatto imbizzarrire i cavalli. I poliziotti volevano intervenire, ma non c’era una legge che glielo permettesse. E Henry si fece strada in quella selva di sguardi, determinato ad avviare la produzione di massa di automobili accessibili a tutti.

Più tardi riuscì ad abbattere i costi di produzione grazie alle catene di montaggio che, al tempo, venivano utilizzate nei mattatoi. Per colpa sua, il lavoro umano venne definitivamente automatizzato e un operario eseguiva alla catena di montaggio per tot ore al giorno sempre le stesse operazioni. E Henry gli dovette andare incontro offrendogli molti benefit, per convincerlo a persistere in quella danza.

Mentre nel mattatoio gli operai udivano ogni dieci secondi l’urlo dell’animale a cui veniva tagliata la gola, e che poco dopo avrebbero tagliato a pezzi, negli stabilimenti della Ford, gli operai montavano veicoli rivoluzionari sui quali era possibile sperimentare un nuovo tipo di libertà.


Da bambino sono cresciuto nella Boemia orientale, accanto a una tangenziale trafficata. Ogni notte venivo cullato fino ad addormentarmi dal passaggio dei camion a lunga percorrenza, tanto che, insieme al piumino e ai peluches, pure il mio letto si trasformava in un camion che aveva il permesso di attraversare i confini.

Ero talmente attratto dall’immagine dei camionisti che ascoltano l’autoradio e si fermano alle stazioni di servizio, che per un certo tempo mi ero tagliato i capelli come loro. Papà mi diceva che sembravo una femmina. Purtroppo i padri non sempre capiscono i propri figli.

Non ho mai visto nulla di più bello di una pozzanghera di benzina versata. Nelle mie fantasie era il modello della galassia in cui mi sarebbe piaciuto vivere.

E le prime costellazioni che ho imparato a riconoscere? Il gran carro e il piccolo carro.
Anche se di solito le stelle non si vedevano perché sopra la città si formava un altro cielo più acido, un cielo fatto di fumi, che suscitava in me una strana nostalgia.

Non c’è da stupirsi se, appena ho potuto, mi sono iscritto all’autoscuola del luogo, la Cenerentola. Sentivo che, solo se non avessi perso i contatti con la sacralità dell’infanzia e delle notti, avrei potuto trasformare la mia vita nel mio destino. In poche parole ero destinato a fare l’autista.


Era un caldo giorno di giugno. Sul cemento del parcheggio vuoto dove c’era solo una Felicia, una Škoda con l’evidente contrassegno P, il sole picchiava. Un uomo barbuto con un berretto da baseball e un gilet di jeans era appoggiato al cofano.

«Eccola» ha esclamato a mo’ di saluto, spegnendo la sigaretta e aprendo la porta dal lato del guidatore.

Mi sono seduto nervosamente dietro al volante, mentre lui si è sistemato comodo nel posto del passeggero, dove aveva già appoggiato il marsupio con i documenti. Un piccolo alberello profumato dondolava tra di noi.

«Quindi, qual è la prima cosa che deve fare quando si siede in macchina?»

«Girare la chiave?» ho sparato a bruciapelo.

«Col cazzo», ha esclamato facendo una smorfia. «Ci pensi bene, oppure la boccio subito».

Sono stato travolto da un’ondata di panico e di eccitazione. Poi mi è venuto in mente: la cintura di sicurezza.

L’istruttore ha sorriso soddisfatto e ha iniziato a spiegarmi: «Ai suoi piedi troverà tre pedali. A sinistra c’è la frizione, serve per cambiare marcia, in mezzo c’è il freno e a destra l’acceleratore. Prima di avviare il motore, bisogna essere seduti belli comodi. Controlli gli specchietti. Ora abbassi il freno a mano, così…»

Mi ha afferrato la mano, per farmelo vedere nella pratica. Finalmente sono riuscito a girare la chiave e, grazie al suo aiuto, a premere la frizione, spostare il cambio dal folle alla prima e dare contemporaneamente gas…

«Ma è matto?! Batte i piedi come un elefante! Deve trattarla bene la macchina, accidenti. Provi ancora, ma con leggerezza, ok?»

Mi tremavano le ginocchia per la vergogna.

«Calma ragazzo, non è niente di grave» ha detto dandomi con comprensione paterna una pacca su una coscia, «ἐοικέτω δὴ συµφύτῳ δυνάµει ὑποπτέρου ζεύγους τε καὶ ἡνιόχου.».


E dopo mezz’ora di manovre da principiante, abbiamo imboccato una strada deserta.

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