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Original text "Câteva minute în derivă" written in RO by Cristina Vremes,
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Maria Gaia Belli

Published in edition #2 2019-2023

Qualche minuto alla deriva

Translated from RO to IT by Andreaa David
Written in RO by Cristina Vremes

La giornata inizia prima del previsto.

Avevo messo la sveglia alle 5.56, per diversi motivi. Volevo avere tempo per la meditazione dell’alba, e insieme, poter aspettare trenta minuti perché la pillola che migliora il funzionamento della tiroide facesse effetto prima del caffè, per poi iniziare una serie di esercizi che combinano lo smaltimento dei grassi alla tonificazione muscolare, usando solo il proprio peso, senza dimenticare, nel frattempo, di accendere il boiler, visto che l’acqua ci mette circa quattro ore a scaldarsi, il che mi lascia tempo sufficiente anche per finire la sequenza di yoga per sbloccare il cuore, senza però correre il rischio di allagare l’appartamento, dato che il termostato del boiler non funziona più e quindi l’acqua si riscalda troppo, senza limite, raggiungendo quasi il punto di ebollizione e innescando una pressione interna che porta al rischio d’esplosione.

Il secondo motivo: da quando ho letto Inibizione, sintomo, angoscia, mi sono resa conto di avere un comportamento ossessivo compulsivo, che voglio sconfiggere con alcuni dettagli del quotidiano, come per esempio una sveglia impostata non a un’ora fissa, ma alla deriva per alcuni minuti. E poi, le 5.56 significano quattro minuti di prolungamento dello stato onirico, per essere fuori dal letto alle sei in punto.

Ma le cose non sono andate proprio così, visto che alle 4.35 ero sveglia e guardavo il soffitto. Ho provato ad addormentarmi di nuovo, invano. Non mi azzardavo a guardare l’orologio, sperando che fosse più tardi, sperando di aver approfittato di abbastanza ore di sonno da poter essere energica e produttiva durante la giornata. Gli spiragli di luce che spuntano tra le cuciture delle tende tardavano a comparire però, e allora mi sono fatta coraggio, mi sono alzata, e ho accettato l’insonnia, l’inizio precoce, la stanchezza del sonno ridotto.

Non è così grave, mi dico. È solo un altro evento che non procede secondo i piani, come ce ne sono stati molti altri, negli ultimi mesi. Con questo tempo guadagnato, non so ancora che fare. Non accendo la luce - sento che non è ancora arrivato il momento di entrare in contatto con l’elettricità, o qualsiasi altro fenomeno fisico. Sto seduta alla turca su un cuscino, la posizione in cui di solito faccio meditazione. Qualcosa m’impedisce di avviare il video con la voce del guru e aspetto, in una tranquillità profonda, quella pace che precede i rumori della strada, i camion dell’immondizia, i clacson. Sono il primo essere umano in stato di veglia, mentre il resto del mondo è incosciente.

Senza alcuno sforzo volontario, l’immagine di una figura che mi assomiglia compare in uno spazio incerto - né nella mente, né nel mondo materiale, piuttosto in un purgatorio del visibile. La figura passa il controllo passaporti, recupera i bagagli dal nastro trasportatore, sale sul treno che collega l’aeroporto al centro città, osserva le persone preoccupate dalle fatture sul telefono, i mendicanti contro cui si scontrano, i caffè in tazze di plastica, senza coperchio, che traboccano. È affollato; è il mondo di tutti i giorni, lontano dalla giungla, dalle tribù laotiane, dagli alberghi di globetrotters, dai party techno in spiaggia, dalle stoviglie di foglie di banana, dal corpo di Iacob, dalla sensazione totale di libertà, di quando percorri valli e strade tortuose in moto.

Il ritorno da un viaggio di tre mesi a una languida normalità offre qualche consolazione. Iacob ha prenotato il biglietto aereo. Le notti nella capanna e le mattine inaugurate con il paesaggio pieno di luce, che sembrava ogni volta inaspettatamente esteso, attraverso la finestra con la cornice di bambù delle dimensioni di uno schienale, queste mattine irrecuperabili continueranno nei 25 metri quadri che occupo nel mio monolocale. Faremo altre esperienza, più ancorate a quello che si dice sia il mondo reale. Iacob mi chiede se cucinerò per lui. Esito a rispondere, e nello stesso momento la videochiamata si blocca. Spero che non abbia fatto caso a questa fine ritirata. Mi chiedo come sarà preparare insieme il curry, nella cucina di un metro quadrato. Come sarà, mi chiedo, comprare insieme riso e condimenti, stare nella fila asfissiante di un supermercato con le promozioni colorate. Stare continuamente insieme, una settimana intera, a studiare il corpo dell’altro talmente tanto da avere l’impressione di scivolare l’uno nell’altro.

La cena della Vigilia di Natale l’abbiamo consumata insieme sul margine della strada, al buio, visto che l’elettricità scarseggiava in quella comunità al nord della Thailandia. Abbiamo mangiato pad thai con gamberetti, direttamente dal sacchetto, appoggiati a un parapetto in pietra, per terra. Il giorno seguente, tornava in una Berlino fredda e umida. Mi ha svegliata la mattina e mi ha abbracciata, con uno sguardo sereno e sicuro, mentre piangevo sommessamente, annidata sul suo corpo. Iacob raccoglie le sue cose in fretta, senza perdersi nella penombra disordinata, tra spazzolini e cappelli, scontrini e scarponi. In un attimo, lega lo zaino attorno ai fianchi, si sente la fibbia di plastica, di cui rimane l’eco nella capanna che si lascia alle spalle, chiudendo la porta con un sorriso.

Il treno è arrivato alla Gare du Nord. La gente si riversa sulle scale mobili, e il flusso caotico di anime si organizza in un’unica fila ascendente. L’odore di topo della metro parigina torna come se non fosse mai scomparso nei tre mesi di viaggio. L’infelicità di una città inasprita, con risorse sfruttate all’eccesso, con briciole di pienezza, s’insedia nuovamente con disinvoltura, come anche gli spintoni, le frustrazioni vissute in comune, il sentimento di disperazione urbana. A Parigi, la vita è stata archiviata in una memoria culturale. La natura esiste nella mente, nelle pitture. La vita è vissuta non attraverso il proprio corpo, ma attraverso l’idea di un pasto a base di ostriche e champagne, l’idea dei sandali beige con le borchie, senza i quali, i pantaloni bianchi a zampa non hanno senso.

Il corpo, il piacere, le sensazioni, i sentimenti non hanno senso senza accessori esteriori, alienati dalla libertà di un paesaggio fatto di cielo e terra. A Parigi anche il cielo sembra dipinto.

L’arrivo di Iacob presto porterà, forse, con sé, la volta celeste in versione naturale, così come l’ho scoperta qualche mese fa. La sua visita coincide con il salone del disegno erotico, dove sono stata accettata. Finalmente, il sentimento di sequestro creativo inizia ad attenuarsi. Il disegno che presento s’intitola We don’t talk about it anymore e mostra una ragazza nuda, con la maglietta macchiata di fard, un disegno respinto dalla maggior parte dei saloni. Il ritorno alla vita reale non è così desolante, quindi, al contrario, rischia di diventare presto troppo complesso, con una successione di eventi ricchi, succulenti, e ho poco tempo a disposizione. Il vernissage, Iacob, la primavera precoce, la borsa di studio in Svizzera, qualche settimana dopo, mi lasceranno poco tempo per acclimatarmi.

Evito di lasciar scorrere la vita troppo velocemente, senza poter fare una sintesi di tanto in tanto. Altrimenti, il flusso degli eventi diventa vertiginoso, e rischio una specie di autismo.

*

Tutti i piani crollano, uno alla volta. Il mondo intero si spegne. I saloni pubblici sono chiusi, gli aerei volano di rado e le compagnie aeree falliscono; il ritorno al mondo reale, che mi aspettavo sul treno dall’aeroporto, è capovolto. Un virus, il cui nome finisce per vid, migra da est a ovest, e si annuncia concretamente su una spiaggia cambogiana, dove vedo i primi viaggiatori e camerieri col volto per metà coperto da una mascherina usa e getta. Ora, il pericolo di contagio è onnipresente, e ci sono posti dove i cadaveri, vittime dell’atrofia polmonare, non hanno posto di sepoltura, e sono tenuti in congelatori enormi, collettivi. Le strade sono immobilizzate, non si sente più il motore delle macchine, l’uscire di casa è determinato da un rigido protocollo, per rispondere alla diffusione dell’epidemia. L’effetto sulle città è fantastico, anche se la causa è catastrofica. Sul tessuto urbano scende una pace rara, un tempo di ritiro e riflessione. Nella luce rarefatta di marzo, poi aprile, maggio, le madri giocano a calcio con i propri figli, gli anziani respirano aria fresca sulle panchine pubbliche, emerge un’umanità malinconica. La passeggiata giornaliera dura solo un’ora, e la assaporo intensamente. Riscopro la città oltre l’agitazione quotidiana che di solito la nasconde.

Invece, l’esistenza tra le quattro mura che delimitano qualche metro quadro, in cui i giorni possono ripetersi senza configurazioni distinte, può essere opprimente. Decido di programmare la quotidianità con rigore. Accetto che Iacob non possa venire, che il mio disegno non avrà nessuna prima visibilità, che il periodo in Svizzera sia compromesso, che seguirà un periodo lungo di silenzio e un futuro in cui dovrò ricominciare da capo.

Le mattine iniziano presto, prima dell’alba. Seguo un impulso momentaneo, di fare del silenzio imposto, un silenzio deliberato, approfondito, chiudo gli occhi, seduta alla turca, alzo i palmi al cielo, e lascio che un nero totale invada la mia mente. Da qui, passo a una formula di meditazione guidata. Dalla pulizia della mente, passo alla pulizia del corpo che sottopongo a un rigido programma di esercizi cardio, bodyweight e yoga, per quasi tre ore, durante le quali divento cosciente di ogni muscolo, sensazione, sforzo, penetrando cavità finora sconosciute.

Sono consapevole del cuore, delle spalle, della punta delle dita, delle rotule delle ginocchia, della respirazione nasale, del centro dello stomaco. Dalla pulizia, passo alla ricostruzione dell’intelletto e all’analisi delle origini, iniziando con la scoperta della democrazia nell’Antica Grecia, passando per la Rivoluzione francese e la storia del canone letterario occidentale, la coscienza di sé nell’Amleto e le strategie militari della Seconda Guerra Mondiale, fino alle strane condizioni in cui sono venuta al mondo, più di trent’anni fa.

Per il compleanno di Iacob, passiamo qualche ora insieme, svestiti, al telefono. Quattro giorni dopo, è il mio compleanno. Mi sveglio col pensiero di trascorrerlo nel modo più normale possibile, senza deviazioni dal mio rigido programma. Se esito per qualche secondo, senza una rigida coordinazione, temo una catastrofe, un episodio lungo, buio e viscoso in cui non potrò più alzarmi dal letto, perché non ho nessun motivo per farlo. E succede proprio questo. Lo schermo si accende la mattina, con messaggi di sconosciuti che sanno del mio compleanno perché il virtuale li ha informati. Dopo pranzo, inizio a chiedermi se Iacob sta pianificando una chiamata speciale, che comporta dei preparativi, e per questo non si è fatto vivo. Trascorro il resto della giornata con il telefono in mano e uno stato di crescente suscettibilità. Lo schermo non coopera e mi sottopone alla sofferenza di dire grazie col pilota automatico, troppe volte, senza nessun sentimento reale di gratitudine. Le quattro, le otto, passa la mezzanotte, e mi addormento con un sentimento amaro, senza essere uscita di casa, senza aver festeggiato con un bicchiere di vino, senza incontrare una sola persona reale, senza un raggio di sole, inquietata dall’imminenza di un vuoto ancora più vuoto, tra queste quattro mura bianche.

Il giorno dopo, nella luce incipiente del mattino, noto che il fusto dell’unico essere vivente che mi consola, una pianta yucca di nome Gigi, si è spezzato. I segni funesti continuano. La statuetta di Ganesh ha un orecchio spezzato, e la mia tazza da caffè preferita mi scivola tra le dita. Quelle poche cose cui posso aggrapparmi, il giorno del cambio di prefisso, crollano e sento che non c’è più nulla da fare, ritorno al tepore della coperta e mi ritiro in una semi-coscienza che dura a lungo.

*

Sono passate settimane da quest’episodio, periodo in cui ho attaccato l’orecchio della statuetta con la super glue, e il fusto di Gigi con Urgo, polvere di cannella e stuzzicadenti. Sono cose che mi rispecchiano. Ricomporle significa ricompormi. Il programma quotidiano diventa ancora più rigido, la pandemia continua, mentre io mi aggrappo alle sveglie e agli esercizi cardio per sussistere, fino a questa mattina, in cui mi sveglio non alle 5.56, come avevo previsto, ma alle 4. Desidero sfinirmi fisicamente. Faccio partire un corso di allenamento ad alta intensità con intervallo. Non voglio più pensare, voglio ridurre l’attività cerebrale a puro sudore, a puro corpo.

Alla fine, durante il rilassamento muscolare, l’istruttrice, tra le altre, dice che la sola cosa permanente è il cambiamento.

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